In un recente articolo apparso sull'”Harvard Business Review” Rachel Botsman, considerata la “guru” dell’economia collaborativa, racconta che due anni fa Peggy Fang Roe, responsabile marketing di Marriott Asia , notava che le sale delle riunioni degli alberghi della catena erano spesso vuote , mentre ristoranti e bar erano pieni di clienti che lavoravano. “Come trovare il modo di garantire un accesso semplice a posti inutilizzati?“, si chiese.
Per trovare una risposta, si rivolse a LiquidSpace, servizio che permette l’affitto fra privati di spazi inutilizzati. Decise, così, di pubblicare sulla piattaforma 40 sale riunioni che crebbero con il passare del tempo fino ad arrivare a 432. In questo modo la grande catena alberghiera ricava spazi inutilizzati, ma soprattutto offre un servizio flessibile che spesso procura nuovi clienti. Un diverso modo di gestire un albergo ma anche una risposta efficace alle difficoltà che il settore sta attraversando proprio a causa di servizi collaborativi come Airbnb o LiquidSpace.
L’economia collaborativa, infatti, già da tempo sta dimostrando i suoi effetti dirompenti. I mercati dell’editoria e della musica hanno già subito i colpi delle logiche collaborative. Ma oggi il diffondersi di nuovi modelli di consumo basati sullo scambio e sulla condivisione fra pari sembra minacciare anche altri settori.
Secondo una recente ricerca di Crowd Companies, il 39% di persone negli Stati Uniti e il 52% in Gran Bretagna sta già utilizzando servizi collaborativi, mentre in Italia il numero si attesta sul 13% (Duepuntozero Doxa). E se i cittadini scambiano e condividono sempre di più invece che acquistare e possedere, che ruolo possono giocare i brand più tradizionali? “Oggi le azienda hanno l’opportunità di sperimentare i paradigmi del marketing collaborativo”, afferma Vittorio Bucci, CEO del Phdmedia, “che significa valutare pratiche di co-partecipazione dei cittadini nella creazione del prodotto, nella logistica, e nell’ottimizzazione delle proprio risorse”.
Gli esperimenti iniziano a essere numerosi: Walgreens, retailer farmaceutico americano, per esempio, collabora con Taskrabbit per la consegna di farmaci a domicilio; B&Q, retailer inglese ha lanciato una community per permettere ai propri clienti di scambiare idee, progetti ma anche oggetti, mentre DHL propone MyWays, un app mobile che connette i clienti con persone disposte a trasportare pacchi. Avis, invece, ha rinunciato a innovare il proprio modello di autonoleggio comprando Zipcar il più grande operatore di carsharing cittadino, e General Motors ha investito 3 milioni di dollari su Relayrides (servizio di carsharing peer to peer).
“Coinvolgendo direttamente i cittadini nei propri processi”, afferma Gianluca Ranno di Gnammo, servizio che mette in contatto cuochi non professionisti con potenziali clienti, “le aziende possono offrire servizi più flessibili – perché più diffusi -, più vicini alle esigenze dei clienti – che testano e promuovono i prodotti direttamente – , ed esperienze più autentiche, alimentando in questo modo soddisfazione e fidelizzazione”. Così si iniziano a intravedere le prime partnership tra aziende e servizi collaborativi anche in Italia. Gnammo stesso già l’anno scorso ha collaborato con Barilla per la sponsorizzazione di alcuni suoi eventi ; qualche mese fa Fastweb ha lanciato una campagna con Eppela, piattaforma di crowdfunding, mentre Adidas, Jeep, e Binda da tempo collaborano con Fubles, marketplace per organizzare partite di calcetto che, tra l’altro, è posseduto per il 15% di capitale da Red Circle Investiments, società finanziaria della famiglia Rosso. “Ma attenzione”, avverte Mirko Trasciatti, co-fondatore di Fubles, ” le nostre partnership sono sempre pensate per portare vantaggi alla nostra community.
Non ci si può più rivolgere alle persone proponendo un modello di advertising tradizionale, dall’alto verso il basso, ma bisogna portare reale valore soprattutto quando si gestisce una community che ha fiducia nell’ambiente che hai costruito per lei”. I servizi collaborativi , infatti, funzionano secondo le logiche diverse da quelle dei brand tradizionali: abilitano i cittadini a mettersi in contatto e non erogano prodotti o servizi. Gli asset dell’azienda non sono più i beni ma diventano delle persone. Per questo si parla di membri di una community e non di clienti, di esperienza e non di prodotto, di piattaforma abilitatrice e non di azienda. ” Per vincere in questi tipi di sperimentazione”, afferma Claudio Bedino di Starteed, piattaforma italiana di crowdfunding, “bisogna davvero mettersi in gioco riflettendo su come coinvolgere i cittadini all’interno dei propri sistemi e non pensare a questi servizi solo come a nuove occasioni per fare marketing”. Ma prima di mettersi in gioco bisogna scegliere il partner giusto: così almeno avverte Stefano Rosso di RCI ( Red Cicle Investiments, società di investimenti della famiglia del fondatore del gruppo Diesel).
” Tutte le attività innovative hanno qualche lato oscuro: la mancanza di controllo, di regole e di barriere all’ingresso può far sì che anche ‘bad companies’ arrivino sul mercato”. Il che, detto da chi investe prevalentemente in nuove tecnologie, è un po’ come dire: ” Attenzione a non perdere il treno, ma procedere con cautela”.
Ribo Soluzioni Informatiche lavora in una ottica collaborativa con le aziende, utilizziamo formule come il baratto e lo scambio merce, essendo uno dei sistemi più vecchi del mondo per scambiare merci. Ma non c’è solo il baratto: fanno parte della Sharing economy anche il noleggio, donazione, prestito, coabitazione, co-lavoro (il co-working). Si tratta di nuovi modelli, spesso anche in dimensioni micro, basati sulla condivisione di beni, servizi, informazioni e competenze. E l’economia collaborativa si fa largo anche in Italia, proprio per battere la crisi e diversificare l’offerta dei servizi. La nostra divisione commerciale è a disposizione per progetti dedicati e soluzioni personalizzate in un ottica collaborativa.
Fonte : Il Sole 24 Ore